La vivibilità del territorio in cui abitiamo e cresciamo i nostri figli è una delle questioni che più ci interessa e tocca da vicino gli aspetti più quotidiani delle nostre vite. Le politiche territoriali che si applicano nei nostri quartieri sono influenzate (se non imposte) da un livello più alto, quello nazionale: quello che è successo a Said, Kadija e i loro bimbi ne è la riprova più palese e sconfortante.
Disoccupati a causa della crisi, come tanti nel nostro territorio, aspettavano la casa popolare rispettandone la graduatoria. Nonostante l’emergenzialità della loro situazione (dal 2014 avevano dichiarato all’emergenza abitativa di essere sotto sfratto), l’attesa è rimasta lunga, questione di anni. A fronte di 15mila richieste su circa 500 assegnazioni annue, sono moltissime le case Atc vuote in attesa di ristrutturazione, ma nonostante ciò vengono stanziati sempre meno fondi con il rischio non solo di un peggioramento dello stato di abitabilità degli alloggi, ma anche di dover ricorrere a (s)vendite o donazioni di grandi enti privati che ne sanciscono spesso e volentieri un meccanismo di speculazione immobiliare.
Per risolvere questo stallo di domanda-offerta (comune a tutte le città italiane, non solo a Torino), il “Piano Casa” varato da Renzi e Lupi ha incoraggiato quest’ultima tendenza attraverso l’art. 3, aumentando la svendita del patrimonio di edilizia pubblica e incentivando proprio la speculazione edilizia. Così le politiche nazionali incidono fortemente sul nostro territorio e la nostra quotidianità: la qualità della vita di fette sempre più vaste della società si abbassa, andando ad impoverire sempre di più non solo chi già si trova in una situazione di difficoltà economica, ma anche le classi medie. Come diretta conseguenza di questa tendenza, la ricchezza che tutti contribuiamo a produrre confluisce nelle tasche di sempre meno individui (e sempre gli stessi).
La ripercussione sociale di questo atteggiamento del governo, è stata la sfiducia della popolazione nei confronti della politica, mettendo sempre più distanza tra i cittadini e i politici. Se questo non fosse bastato, la volontà di cambiare la costituzione appellandosi di facciata ai costi della politica, ma evidentemente col fine di rendere i “professionisti” della politica (o della corruzione?) sempre più autonomi (e non eletti), segnerà un abisso ancor più profondo tra noi e loro.
Su questo siamo chiamati a scegliere al Referendum costituzionale del 4 dicembre: creare un varco ancor più profondo tra politica e cittadini per mantenere stretto il legame con le imposizioni dell’economia e la finanza globalizzata, scelta marcata da Renzi come “innovazione”, o mantenere lo status quo. Una scelta piena di dilemmi, che crea grandi spaccature, perché nessuna delle possibilità è realmente positiva.
Bisogna votare NO, ma solo il voto non basta. Bisogna fare in modo che questo voto sia solo il primo passo di un percorso contro il governo Renzi come simbolo di una politica nociva per i territori, una lotta capace di riempire le piazze e far arrivare la propria voce laddove il referendum non è sufficiente.
Dobbiamo renderci padroni delle nostre scelte, è finito il tempo di delegare e partecipare solo con il voto, senza alcun partito che ci rappresenta e con un governo nemmeno eletto, c’è chi dice NO con il voto e scende nelle strade di Roma il 27 Novembre per una grande manifestazione nazionale. In quella data, il popolo del NO avrà l’opportunità di urlare a gran voce il perché del suo voto e fermare la deriva autoritaria del governo Renzi.
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