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Respinte le richieste di domiciliari per Donato e Stefano, ma noi continuiamo a resistere
L’ex roccaforte PD rimane spaccata, immagine di un voto di classe oltre il sistema dei partiti
A Torino si è riproposta una forte spaccatura nel voto referendario del 4 Dicembre. Se da una parte permangono delle fette sociali ancora legate al PD e a Renzi, queste sono relegate in una ben determinata parte della città, il centro addobbato per i grandi eventi e l’economia del turismo. Ma questa fetta di torinesi ha altro che li accomuna, ovvero la voglia di rimanere legati ad un conservatorismo che oggi ha il volto del PD, esprimendo tramite il SI i voleri di quella classe che riesce ancora a guadagnare e speculare in questo periodo di crisi continua.
Invece, il voto che più ci interessa descrivere e quello che viene dalle periferie dove ieri il NO ha vinto in maniera forte, con un distacco che superava i 20 punti percentuali, palesando un rifiuto al sistema dei partiti e delle lobby che continuano a cambiare volto ma non la quotidianità della crisi. Questa frammentazione netta si era già verificata nelle elezioni di Giugno, ed ora si ripropone, ad evidenziare che quel rifiuto non è cambiato nella sua grandezza a discapito degli enormi investimenti investiti nella campagna “Basta un SI”.
Ovviamente, le istituzioni hanno la volontà di tornare al più presto su nidi stabili e sicuri. Per questo, dopo il referendum si sentono già inneggiare spauracchi come quelli dei mercati, dello spread, e quelli più vicini a noi, ovvero le promesse di Renzi alla città di Torino (i fondi per l’alluvione e quelli per il Parco della Salute). Questo ci fa subito capire la struttura istituzionale e il suo essere satura di promesse durante le campagne elettorali, senza una visione strutturale delle politiche e della ridistribuzione della ricchezza.
La seconda considerazione che possiamo fare sui dati del voto a Torino riguarda l’affluenza: al referendum costituzionale a Torino ha votato il 71,47% degli aventi diritto; mentre a giugno al primo turno delle elezioni comunali avevano votato il 57,18 degli aventi diritto. Percentuale ancora più bassa quindici giorni dopo quando Appendino aveva battuto Fassino: 54,41% era stato il numero dei torinesi che si erano recati alle urne. Questa affluenza rivela la volontà di esprimersi, anche solo attraverso un voto, ancor più se la posta in gioco è una rottura netta ed il voto può significare la sfiducia nei confronti di un sistema di partiti ormai omogeneo che si sforza solo a perpetuare i privilegi che loro stessi possiedono.
Tuttavia, la presa di posizione netta dei torinesi stufi di vivere la crisi cerca subito di essere affossata dietro il partito che oggi governa la città, il Movimento 5 Stelle. Ma la realtà che esce dalle bocche delle persone è un’altra. Questa realtà ha il volto di una sfiducia più generale che vede nel partito di Grillo l’alternativa meno peggio, rimanendo però consapevole dei vincoli a cui la politica istituzionale si deve conformare appena varca la soglia sedendosi nelle poltrone del potere.
Quindi, questo non è un salto in braccio al partito che comunque forse avrà la meglio nelle prossime elezioni, ma un salto in un vuoto fatto di maggiori speranze rispetto al quotidiano, una reazione di pancia ad un malessere reale. Reazione che ora ha bisogno di essere ascoltata e incanalata per riuscire a creare un forte e compatto Popolo del NO capace di ottenere le rivendicazioni che sul territorio porta avanti, dal diritto alla casa, allo studio, al lavoro ecc…
In questa direzione va letta la mobilitazione che ha portato in piazza 50mila persone a Roma il 27 Novembre, tutte accomunate da un rifiuto al piano politico portato avanti da Renzi. Questo tipo di politiche rimane comunque orizzontale al sistema dei partiti, Renzi e il PD ne è solo il volto ed il promotore in questa specifica fase. Dunque, la posta in gioco ora, dopo il referendum, è quella di rompere definitivamente con questo modus operandi europeo fatto di perpetuamento dello status quo a discapito di chi la crisi la paga realmente, dovendo scegliere se mangiare o pagare l’affitto.
Nella stessa direzione, l’appuntamento di Lunedì 5 Dicembre in piazza Palazzo di Città vuole essere un momento in cui, oltre a festeggiare il risultato referendario per nulla scontato, vista la onnipresente campagna del Si, ricomporre un insieme di persone che ritengono il voto insufficiente e che ora vogliono rivendicare insieme i diritti che si vedono giornalmente negati dalle istituzioni a partire dal ritiro delle riforme approvate dal PD: Jobs Act, Piano Casa e Buona Scuola.
Il vero cambiamento: il 4 dicembre C’è chi dice No! Renzi a casa, manifestazione il 27/11 a Roma
Il territorio dove viviamo e cresciamo i nostri figli è l’ambito che più ci interessa, ma le situazioni che lì si manifestano sono spesso dirette emanazioni di un piano politico nazionale che all’oggi è rappresentato da Renzi e il suo partito , il PD. Quindi, quali sono le politiche riformiste di questo governo? Indebolimento delle tutele sul lavoro, ad opera del Jobs Act; investimenti in grandi opere inutili, tra le quali addirittura il famoso ponte di Messina; aumento del costo della sanità, sempre più per pochi; sempre meno risorse alle scuole, quindi tetti che crollano. Non ultimo, la svendita dell’edilizia pubblica, stabilita dall’art.3 del Piano Casa.
Le politiche nazionali parlano chiaro, perseguono una direzione che è quella che ogni giorno si traduce in abbassamento della qualità della vita per fasce sempre più ampie di popolazione, mentre la ricchezza è trattenuta nelle mani di pochi. Tuttavia al governo Renzi serve concentrare maggiormente il potere nelle proprie mani e avere maggiore facilità di manovra per promuovere le politiche di austerità che le leggi del mercato e dell’economia globale vorrebbero imporci.
Vogliono cambiare la costituzione per staccarsi ulteriormente dai cittadini, rendendo i “professionisti” della politica (o della corruzione?) sempre più autonomi e sempre meno espressione della volontà popolare. A questo proposito siamo chiamati a votare al referendum del 4 dicembre: la scelta è tra un Sì che porta con sé la conferma alle politiche promulgate dal governo Renzi in questi anni e l’assenso a quelle che potrà varare in futuro, o un No di rifiuto a questa strumentale modifica della costituzione e a questo sistema di governance che ci vuole sempre più poveri, soli, precari, flessibili e silenziosi di fronte alle scelte della politica istituzionale. Ma quello che possiamo fare non è poco: votare NO sarà il primo passo, ma non basta. Bisogna fare in modo che questo voto sia solo l’inizio di una lotta contro il governo Renzi, una lotta capace di far arrivare la propria voce fin dentro ai palazzi dove i politici stanno bene attaccati alle loro poltrone. Sulle nostre vite vogliamo essere noi a decidere. Per questo, senza alcun partito che ci rappresenti e sotto un governo nemmeno eletto che ci fa pagare la crisi, c’è chi dice NO andando a votare ma anche scendendo nelle strade di Roma il 27 Novembre, per una grande manifestazione nazionale.
In quella data orecchie abituate a essere sorde di fronte alla voce di chi in questo Paese ci vive e ha deciso che così non si può più andare avanti saranno obbligate ad ascoltarci.
Pagina Facebook: C’èChiDiceNo
Cosa significa essere sfrattati dal palazzinaro Giorgio Molino
Intervista ad Albino, cardiopatico in attesa di sfratto
Albino: 69 anni, cardiopatico, inoccupato, invalido al 75%, in attesa dell’esecuzione dello sfratto. Questo può essere un riassunto verosimile di ciò che appare nel suo modulo di richiesta di contributo economico ai servizi sociali, in quello di richiesta presso gli uffici dell’emergenza abitativa, in quello di richiesta di assegnazione della casa popolare presso ATC. Moduli strutturati e compilati con modalità diverse ma che portano tutti al medesimo esito: NO. Noi però non ci fermiamo al “no” formale, esito programmato e insito nei cavilli burocratici che rendono sempre più arduo accedere all’esercizio dei propri diritti e abbiamo voluto capire con Albino le cause di questo abbandono vergognoso da parte delle Istituzioni.
Albino, come tanti, ha perso il lavoro a causa della crisi economica: lui e sua moglie hanno tentato di sopravvivvere integrando la misera pensione di invalidità di lui con lavori precari di Cinzia, 54 anni. Quando anche questi sono venuti a mancare non sono più riusciti a pagare l’ affitto: la proprietaria di casa ha deciso di procedere allo sfratto.
Eravamo con Albino quando il 21 luglio, in modo abbastanza inusuale per un secondo accesso( fatto che ci ha lasciato non poco perplessi e incuriositi da questo intervento zelante dell’ufficiale giudiziario) gli è stato dato il famoso articolo 610. Non stupisce che sia stato necessario l’intervento di un’ambulanza per soccorrere Albino dopo aver capito la crudeltà che si cela dietro l’esecuzione di questo articolo che, lo ricordiamo, viene applicato quasi esclusivamente a Torino. Lo sfratto a sorpresa ad una persona cardipatica? Questa è stata la risposta che le Istituzioni hanno riservato ad Albino.
L’unica proposta arrivata dai Servizi sociali è stata la casa di riposo per lui con assorbimento completo della pensione di invalidità e il dormitorio pubblico per la moglie e il figlio. Albino ha giustamente rifiutato una soluzione che, oltre a dividere il nucleo familiare, avrebbe portato soprattutto la moglie a dover sopravvivere senza alcun aiuto economico.
Albino e Cinzia vivono ormai segregati in casa, sobbalzano ad ogni rumore, aspettano con terrore che le forze dell’ordine vadano a sbatterli in mezzo alla strada…da due settimane questi due signori di 69 e 54 anni vivono anche senza gas perchè a causa delle morosità accumulate ne è stata interrotta l’erogazione….davanti a questa ennesima brutalità istituzionale, viene da chiedere a Lor Signori, seduti alle scrivanie di ATC e dell’emergenza abitativa, quale senso possa avere che a una persona, che è stata residente a Torino per 30 anni e che si è poi trasferita per otto in provincia per poi fare ritorno definitivamente a Torino, venga negato il diritto all’emergenza abitativa perchè non può contare ad oggi su tre anni di residenza continuativa. I trent’anni precedenti non contano nulla?
Sono più importanti i conti, gli anni, i mesi, i cavilli costruiti ad hoc per poter dire no, per poter negare il diritto, per poter schiacciare la dignità di chi, fiducioso, si era rivolto alle Istituzioni per avere un sostegno in un momento di difficoltà.
Noi continuiamo ad essere insieme ad Albino e alla sua famiglia che ogni mattina si chiedono se sarà il giorno in cui le Istituzioni e le forze dell’ordine li sbatteranno in mezzo alla strada.
Davanti alla latitanza delle istituzioni Albino sta imparando che quello che ci viene tolto, noi ce lo riprendiamo! La lotta è l’unica strada possibile: casa, reddito, dignità per tutti!
Video intervista ad Albino, cardiopatico in attesa di sfratto
Il muro popolare vince!
Come promesso, venerdì 16 settembre ci siamo ritrovati in molti davanti al portone della casa di Lashad in Via don Bosco, determinati ad impedire lo sfratto dell’ennesima famiglia vittima della crisi economica, delle speculazioni degli avidi palazzinari e della sordità delle Istituzioni.
Lashad e sua moglie hanno vissuto per vent’anni in un alloggio in affitto dove, grazie al lavoro di lui nell’edilizia, sono riusciti a costruire una famiglia con tre bambini: una di dieci anni, con una disabilità mentale, uno di sette e una di due. A causa della crisi economica, Lashad, come molti, ha perso la sua unica fonte di reddito e per evitare di accumulare troppe morosità ha chiesto alla proprietaria di casa di poter rateizzare il debito.
La proprietaria di casa (proprietaria, tra l’altro, della maggior parte degli alloggi e degli esercizi commerciali del condominio) si è mostrata sorda davanti alle sue richieste e da “brava palazzinara” non ha esitato a richiedere lo sfratto di Lashad e della sua famiglia.
Lashad ha cercato immediatamente l’aiuto delle istituzioni e altrettanto immediatamente ne ha sperimentato la totale latitanza ed inadeguatezza: le porte dell’emergenza abitative gli sono state sbattute in faccia a causa dei soliti cavilli burocratici, costruiti e pensati ad hoc per diminuire sempre di più il numero delle persone che possono accedere a tale diritto.
I servizi sociali, dopo aver visionato la richiesta per la casa popolare con un punteggio di 15 punti assegnato da più di un anno, non hanno trovato altro da offrire a Lashad che due settimane di prova al Sermig. A giugno vicino a via Don Bosco Lashad si è imbattuto in uno dei nostri muri popolari a difesa di un suo conoscente: è cosi che abbiamo iniziato insieme un percorso che già a luglio ci aveva portato al suo fianco per impedire lo sfratto, rinviato al 16 settembre, tra le grida offensive della proprietaria di casa, la mortificazione della bimba di Lashad che ha dovuto subire la visita di un medico legale dell’Asl che verificasse le sue condizioni di salute, e la presenza delle Forze dell’ordine sempre più massiccia, si sa, quando c’è da andare a braccetto con gli interessi di qualche avido palazzinaro.
Nella prima metà di settembre Lashad si è recato più volte ai servizi sociali cercando un aiuto, ma la risposta è sempre stata unica: due settimane di prova al Sermig. Prendere o lasciare.
Così nei giorni precedenti lo sfratto abbiamo tentato di diffondere il più possibile la storia di Lashad mettendo in risalto la vacuità istituzionale che circonda tutte le vicende simili alla sua. Così, come per magia, a metà della mattinata di resistenza allo sfratto, Lashad e la sua famiglia ricevono una telefonata da parte della stessa assistente sociale che, non più tardi del giorno prima, “non sapeva proprio cosa farci” che tira fuori per loro dal cappello una sistemazione abitativa gratuita fino all’assegnazione della casa popolare.
Ma grazie: grazie per aver sbattuto la porta in faccia per un anno a questa famiglia, grazie per esservi nascosti per mesi dietro a mille cavilli burocratici e alle menzogne. Quante famiglie in difficoltà si sentono dire “non sappiamo cosa farci”, “non possiamo fare altro”??
Nel caso in cui, però, ci si organizzi per essere in tanti pronti a resistere e stufi di farsi prendere in giro da Lor Signori, le cose iniziano a cambiare e le soluzioni sbocciano improvvisamente.
La storia di Lashad è l’ennesima dimostrazione che se si esce dalla solitudine in cui le istituzioni ci confinano e ci si auto-organizza le risposte non tardano ad arrivare: la lotta dal basso è l’unica strada possibile! Casa, reddito, dignità per tutti!
Torino, contro l’arroganza dei palazzinari: resistenza!
Lashad e sua moglie hanno tre figli: uno di due anni, uno di otto e la più grande di dieci, nata con una disabilità mentale. Dopo venti anni di lavoro e vita a Torino, Lashad perde il lavoro e inizia a faticare a pagare regolarmente l’affitto.
Chiede più volte alla proprietaria di poter rateizzare le morosità accumulate. La risposta di colei che vanta la proprietà della maggior parte degli alloggi ed esercizi commerciali dell’intero stabile in cui vive Lashad? SFRATTO.
Da brava palazzinara speculatrice non ci ha pensato due volte.
La risposta delle istituzioni?
Lashad e i suoi bambini non hanno diritto all’emergenza abitativa per i soliti cavillosi pretesti burocratici e attendono da quasi un anno la casa popolare avendo 15 punti.
E i servizi sociali?
Due settimane “di prova” al Sermig oppure una soluzione in un “albergo” a carico quasi interamente di Lashad.
Venerdì 16 settembre saremo al fianco di Lashad e della sua famiglia per impedire che vengano sbattuti in mezzo ad una strada nel silenzio incurante delle Istituzioni.
L’appuntamento per chi vuole impedire con noi questa ennesima brutalità è venerdì 16 dalle ore 8.00 in Via Don Bosco 31.
BASTA GENTE SENZA CASA; BASTA CASE SENZA GENTE
Torino, sospensione degli sgomberi per le famiglie della Falchera
Oggi le famiglie del Comitato Figli di Miccichè della Falchera si sono presentate all’appuntamento a cui sono stati costretti a partecipare Mazzù, presidente di Atc, un assessore alle politiche abitative della giunta regionale e un funzionario del comune, visto che ancora gli assessori cinque stelle non si sono ancora insediati.
L’umore era alto fin dal principio poiché davanti all’Atc si sono ritrovate a portare la loro solidarietà tutte le realtà che da anni si occupano del diritto all’abitare, formando un blocco compatto contro il disagio abitativo, le speculazioni edilizie e la cecità istituzionale sempre più intenta a relazionarsi solo con banche e imprese. Il presidio partecipato ha reso palese le condizioni che accomunano periferie e zone più limitrofe al centro: un disagio abitativo che non lascia altra scelta che riprendersi le case pubbliche lasciate in disuso, insieme ad un impoverimento diffuso che spinge verso la creazione di coesioni anti-istituzionali, capaci di auto-organizzarsi e lottare per i propri diritti.
Il presidio si è trovato davanti la solita sfilata di celerini e digos, con la conseguente pressione psicologica, specie nei confronti dei bambini che la settimana precedente avevano dovuto assistere ai violenti sgomberi eseguiti dalle stesse divise. Il Comitato ha denunciato la militarizzazione delle loro iniziative, mentre una delegazione ha partecipato al tavolo con i rappresentanti delle istituzioni su detti. La determinazione degli occupanti di Falchera ha strappato a Mazzù un comunicato di Atc, Regione e Comune nel quale si dichiara: “di non sgomberare i 9 alloggi ancora occupati fino ad un nuovo incontro delle famiglie con il nuovo assessore di competenza del Comune di Torino. Nel frattempo, i funzionari e i servizi sociali della città daranno corso agli approfondimenti necessari a valutare le situazioni di ogni nucleo occupante per individuare possibili soluzioni abitative alternative.”
Durante il tavolo di negoziazione l’Atc ha continuato con la sua politica subdola che vuole scatenare una logica di guerra tra poveri. Infatti, insieme a una famiglia di assegnatari, alcuni funzionari dell’Atc si sono presentati alla porta di un occupante, rimasto a casa a causa della necessità di badare alla madre anziana. Come è stato fatto nei precedenti tentativi di criminalizzare le occupazioni tramite l’assegnazione delle case, alcuni solidali del quartiere hanno spiegato la situazione abitativa così da ricevere la solidarietà della stessa famiglia assegnataria. Ancora una volta, quindi, le istituzioni si vedono sconfitte dalle affinità che si creano tra occupanti e assegnatari. Infatti, questi ultimi hanno atteso per anni una soluzione che è arrivata solo ora e, per questa ragione, sanno molto bene cosa significhi doversi arrangiare per avere un tetto sopra la testa.
La giornata di oggi si inserisce in un percorso di lotta più ampio che i componenti del Comitato sono decisi ad intraprendere, uniti e forti della solidarietà del quartiere e delle altre realtà cittadine che giorno per giorno lottano per il diritto all’abitare. Questa vittoria parziale ci conferma quanto già da tempo gli stessi membri del Comitato Figli di Miccichè sanno: occupare le case popolari, oltre a dare un tetto sopra la testa ai propri figli, costringe le istituzioni ad uscire dallo loro immobilità, riuscendo a metterle in difficoltà sul piano politico e di gestione del bene pubblico.